L'eredità di Auschwitz_Intervista a Georges Bensoussan

Intervista raccolta da Laura Fontana, Rimini 2 ottobre 2007

La Shoah, lezione di storia, questione politica, sfida della memoria

Nel suo libro L’eredità di Auschwitz, lei sostiene che la storia della Shoah non è seguita da alcuna redenzione e non è sinonimo di alcuna trascendenza. Il che significa che le vittime sono state uccise senza perseguire altro fine che quello di farle morire ed è pertanto del tutto inutile cercare una spiegazione morale in questo evento. L’insegnamento della Shoah deve dunque essere affrontato in maniera del tutto diversa da un normale insegnamento di storia, cioè politicamente. Come può un insegnante riuscire a fare della lezione su Auschwitz un insegnamento non morale ma politico?

La Shoah ha segnato una svolta irreversibile nel nostro tempo. E’ un argomento talmente doloroso che ovviamente ci porta verso una dimensione morale, ma non possiamo accontentarci solamente di questo aspetto. Non possiamo eliminare da questo insegnamento né la commozione né la morale, entrambe legittime e necessarie. Dobbiamo tuttavia sforzarci di andare oltre. E’ un’illusione pedagogica dare ai nostri studenti una risposta morale invece che politica. Quando parlo di fare di Auschwitz un insegnamento soprattutto politico intravvedo due approcci possibili: il primo è di tipo culturale e implica l’interrogarsi su come una civiltà abbia deciso di eliminare una parte di se stessa, perché il popolo ebreo è parte della civiltà europea da sempre. Qual è il terreno culturale che ha preparato il genocidio? Qual è il pensiero che ha gettato le basi per compiere il crimine? Non si tratta di fare un’archeologia del disastro, ma di ripercorrere le strutture del pensiero antidemocratico, della corrente del contro-Illuminismo che dalla fine del Settecento, inizi Ottocento ha contrassegnato gran parte della cultura europea.
Un secondo approccio possibile per l’insegnamento della Shoah implica la domanda: come è stato possibile commettere il crimine? Dobbiamo riflettere su come degli uomini comuni, bravi padri di famiglia, abbiano potuto trasformarsi in carnefici, in freddi burocrati-assassini. Questo è un punto centrale per una discussione che affronti il funzionamento del meccanismo di gruppo quando l’omologazione, il consenso e il rispetto dell’autorità prevalgono rispetto alla capacità di raziocinio. Dobbiamo analizzare il funzionamento delle strutture della società di massa che spesso de-responsabilizzano l’azione del singolo e questo soprattutto in un contesto di forte ideologia e in un ambito di guerra, perché ogni genocidio è stato commesso in uno scenario di guerra.
Questa prospettiva ci permette di vedere i carnefici della Shoah non come dei mostri, ma come esseri umani, cioé di umanizzare il crimine, rendendolo dunque meno rassicurante perché più vicino a noi. Questo non significa, tuttavia, trasmettere l’idea che tutti possano diventare in qualunque momento della loro vita degli assassini, ma che una buona percentuale della gente comune, in circostanze estreme, può lasciarsi prendere dalla logica di gruppo e dalla decisione di perseguitare una parte della società.
Il semplice fatto che anche durante il nazismo non tutti abbiano seguito la via del consenso, la strada del male, ci permette di impostare la nostra lezione di storia ponendo l’accento su come ogni uomo abbia sempre la possibilità di scegliere il proprio comportamento, di opporsi alla scelta del male.
Tutto questo è per me un insegnamento politico della Shoah.

Per Aharon Appelfeld, celebre scrittore israeliano, il futuro della trasmissione della memoria della Shoah non è affidato alla storia ma alla letteratura, in quanto solo l’arte ha il potere di far uscire la sofferenza dall’abisso del ricordo. E’ una posizione agli antipodi di quella di Elie Wiesel e di Claude Lanzmann, che invece sostengono come ogni rappresentazione della Shoah sia impossibile e sostanzialmente oscena. Eppure entrambe le posizioni sembrano relegare in secondo piano il ruolo della storia rispetto a quello della memoria. Qual è il suo pensiero?

Non opporrei in maniera così categorica storia e letteratura. Sono convinto che non potremo mai fare a meno della storia, della ricostruzione puntuale dei fatti, di quello che è accaduto prima, durante e dopo la Shoah; questa ricostruzione rimarrà a disposizione dei contemporanei che vorranno comprendere qualcosa del genocidio degli ebrei.
D’altro canto è vero che una trasmissione della Shoah solamente affidata alla memoria rischia di essere fragile. La memoria ha in sé il rischio della rielaborazione degli eventi nel tempo, dell’amnesia, è una ricostruzione parziale, soggettiva, estremamente selettiva, talvolta può risultare artificiale. Certo è, comunque, che la letteratura rappresenta una delle forze di trasmissione più potenti dell’animo umano, con la sua grande capacità di indagare l’anima, mettendo a nudo pensieri e comportamenti. In fondo noi esseri umani non siamo che parole.


Parlando di letteratura, dunque principalmente di narrativa riferita alla Shoah e non di memorialistica, non è sempre facile decidere quale produzione possa essere collocata in questa categoria. Farò solo due esempi che corrispondono ad altrettanti casi letterari in cui la finzione sembra sconfinare nel plagio, quasi in quell’oscenità dell’arte alla quale fa riferimento Wiesel: "Frammenti" di Binjamin Wilkomirki pubblicato in Francia diversi anni fa, in cui l’autore, poi smascherato, si spacciò per un ex sopravvissuto che raccontava le proprie memorie di bambino nel lager di Majdanek e "Les Bienveillantes" di Jonathan Littel ("Le Benevole", di recente tradotto da Einaudi), in cui l’autore sposa, invece, il punto di vista del carnefice, trascinando il lettore al centro del processo di uccisione. Due finzioni letterarie, prodotte da autori che non sono né figli né nipoti della Shoah e che hanno ottenuto clamorosi successi di critica e di pubblico. Secondo lei, questi non sono esempi di una letteratura della Shoah che non contribuiscono affatto alla trasmissione della memoria della Shoah, ma anzi, attirano lettori ingenui, colpiti forse dall’insistenza per gli aspetti più morbosi e macabri dell’evento?

Ci sarà sempre una cattiva letteratura della Shoah e dobbiamo stare attenti a questo pericolo. L’argomento è forte e attira in maniera morbosa la curiosità per il male, la passione per il voyeurismo, la voglia di morte e di orrore. E' indispensabile fare una cernita dei testi che possiamo considerare letterari e utili in una lezione sulla Shoah agli studenti. Ce ne sono tanti, ovviamente, posso citare ad esempio L’ultimo dei giusti di André Schwart Bart, La notte di Elie Wiesel, Essere senza destino di Imre Kertesz, alcune opere di Primo Levi, di Aharon Appelfeld, tutti questi sono testi che riescono perfettamente a far passare il senso della Shoah. Il libro di Littel non fa che mostrare questa pericolosa inflazione per una cattiva letteratura che non serve a nulla, non ci aiuta affatto a trasmettere il senso della memoria, né a insegnare la storia di quanto e' accaduto.

In questo ultimo decennio assistiamo ovunque al moltiplicarsi delle iniziative dedicate alla Shoah soprattutto nella settimana precedente il 27 gennaio, Giorno della Memoria in Italia, Francia e in tanti altri Paesi. Si tratta spesso di commemorazioni all’insegna dei buoni sentimenti e della lacrima facile, in cui alla compassione per le vittime si unisce il monito «mai più Auschwitz», in un binomio ricordare per non dimenticare assunto come imperativo della memoria che  rischia, talvolta, di svuotare di significato la lezione su Auschwitz.
E’ lecito, secondo lei, senza essere tacciati di revisionismo, esprimere preoccupazione per questo pathos collettivo e per questa retorica delle buone intenzioni che rischia di produrre rischi non di poco conto nel mondo giovanile, quali per esempio l’indifferenza o l’insofferenza per l’argomento?

E’ lecito, certamente, preoccuparsi, perché il rischio della commemorazione è quello di trasmettere una memoria pietrificata, una memoria rituale che, come tutti i rituali, rischia di stancare e di annoiare il pubblico, offrendo un'immagine di conformismo al dovere (bisogna ricordare).
A lungo termine, questo dovere di memoria, del tutto astratto dalla realtà, svincolato dai grandi interrogativi dell’uomo, rischia di diventare qualcosa di molto simile, ad esempio, alla commemorazione dell’11 novembre in Francia (nota: l'11 novembre 1918, armistizio della prima guerra mondiale) che è qualcosa di molto composto e formale. I giovani sono esortati a seguire un esempio imposto dall’alto, ma non sono minimamente sollecitati ad interrogarsi sul senso attuale di quella commemorazione, direi che per loro la commemorazione non ha molto senso. Anzi, il rischio più grave è che all’idea di commemorazione in futuro si associ implicitamente l’idea di conformismo al potere, di una decisione autoritaria e non condivisa, dunque dobbiamo aspettarci anche reazioni di ribellione e di rifiuto per il Giorno della Memoria.
In Francia il problema è molto sentito all’interno delle scuole, soprattutto laddove la forte presenza di studenti immigrati da altre realtà provoca una sorta di rivendicazione non solo sociale ma anche storica. Si tratta di studenti provenienti dalle ex colonie, neri o musulmani, che sentono di avere un passato famigliare e un passato storico da riscattare. Da qui una frequente contestazione nelle classi multiculturali, in cui alla lezione sulla Shoah viene polemicamente richiesto di sostituire l’insegnamento di altri periodi storici, come per esempio la guerra di Algeria, la decolonizzazione, o ancora il conflitto arabo-israeliano.
In un tale contesto, occorre fare molta attenzione e interrogarsi sulle modalità dell’insegnamento per non far passare la memoria della Shoah come un simbolo del conformismo, come un dovere di Stato al quale occorre piegarsi passivamente.

Vaccinare o educare? Quando un insegnante affronta l’argomento Shoah, sa che gli viene implicitamente richiesto di trasmettere oltre alle informazioni storiche anche dei messaggi morali. L’insegnamento diventa quindi una missione civica che deve essere in grado di condurre gli alunni alla riflessione sul valore dei diritti dell’uomo. Ma il rischio in tutto ciò non è quello di predicare invece che di insegnare, di fare della buona retorica e di schiacciare la riflessione critica dei nostri ragazzi?

La Shoah è un argomento che non deve limitarsi solo a trasmettere un insegnamento storico. Bisogna sforzarsi, innanzitutto,  di far passare un insegnamento profondo e complesso, che come insegnanti ci richiede del tempo e dell’impegno. Non si può insegnare la storia della Shoah in due ore, ogni idocente deve trovare il tempo giusto e necessario affinché riesca a trasmettere tutta la complessità e la difficoltà di un evento simile, anche a costo di rovesciare gli schemi e le rigidità del proprio curricolo scolastico. Se vogliamo rispettare in maniera assoluta i programmi scolastici, non è possibile insegnare bene la Shoah.
Non dobbiamo neanche pretendere di dare risposte semplici ad un argomento difficile.
Al contrario, invece, un corso di storia su Auschwitz ben strutturato porterà naturalmente a legare insieme questioni politiche e questioni morali, non si può dividere le une dalle altre. Non si può parlare di Shoah senza sollevare alcuni grandi interrogativi come, ad esempio,la limitazione della libertà di agire del singolo nelle società omologate, basate sul comportamento di gruppo, la normalità del male, il sadismo che viene fuori quando anche l’uomo più  pacifico e inerme si trova in gruppi ove la violenza e la responsabilità del male sono condivisi e delegati al gruppo stesso nel suo insieme. Possiamo evocare in classe i celebri esperimenti di Milgram. Gli stessi ragazzi saranno indotti a porci queste domande, ma tutto dipende da noi, da come affrontiamo l’argomento.

<In un'intervista che lei ha rilasciato a Pascale Camus-Walter ha detto: "Non credo che moltiplicando i corsi sulla Shoah si riesca a prevenire l’antisemitismo. La lezione di storia è una riflessione politica, non è una vaccinazione civica."
Eppure noi educatori abbiamo il dovere di infondere speranza ai nostri giovani, non possiamo trasmettere loro solo un mare di violenza e di orrore. Come si conclude allora un corso sulla Shoah?>

Proprio perché un insegnante deve essere capace di analizzare, di decodificare i modelli di pensiero che hanno preparato il terreno del genocidio (l’antisemitismo, la diabolizzazione dell’ebreo, il razzismo, la concezione dell’uomo come oggetto biologico utile o non utile, ovvero il bio-potere che si afferma tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento parallelamente alle teorie eugenetiche) la Shoah verrà trasmessa agli studenti come evento storico e non metafisico. Concepire la Shoah come un mito del male assoluto, un simbolo dell’orrore e del sadismo, ovvero come una catastrofe metafisica, un elemento casuale e impazzito del mondo, come una devianza improvvisa della storia può solo spaventare, provocarci ansia, perché ci preclude la possibilità di comprendere che è il contrario di quello che noi dobbiamo invece sforzarci di fare in classe. Un insegnante deve rassicurare per mezzo di spiegazioni chiare che lassegnino un senso agli eventi storici, affrontando la Shoah, con i suoi interrogativi, le sue ambiguità e le sue complessità, come un oggetto della storia, che ha delle cause e delle modalità come qualunque altro evento della storia. Il fatto di insistere sull’assenza di qualunque motivo concreto per uccidere gli ebrei, sull’assenza di giustificazione, non ci esime dallo spiegare come, dove, quando e perché si è messo in atto il genocidio.
La speranza per i giovani sta proprio nella spiegazione centrale dell’insegnamento su Auschwitz: qualunque individuo confrontato con situazioni estreme può scegliere e la sua scelta non dipende mai dalla sua appartenza politica di destra o di sinistra, né dal suo livello di istruzione o di cultura e nemmeno dalla sua appartenenza etnica o sociale. La facoltà di scelta dell’uomo dipende sempre e solo dalla sua capacità di ragionamento, di sapersi tirar fuori dal gruppo e di ascoltare la propria coscienza.
Quella sulla Shoah non è affatto una lezione disperata, al contrario, essa rivaluta pienamente la nostra capacità di saper pensare e di agire di conseguenza.